di Alessandro Vicenzi
#7 - NELLA VALLE DEL DIO BIANCO
Africa.
Esplosione. Impatto. Dolore.
I piedi si staccarono dal suolo. La violenza della palla di piombo lo sbalzò
via.
Solomon Kane cadde all’indietro, con una spalla spappolata. Il dolore si
estendeva da lì verso il resto del corpo. Non riusciva a muoversi. Troppo
debole per fare qualsiasi cosa.
Lo avevano trovato. Lo avevano sorpreso. Lo stavano per uccidere.
Quella pallottola era stata l’ultimo colpo di uno scontro furioso. Loro erano
in quattro. Due di loro li aveva scaraventati all’inferno. Gli altri due
stavano per fare lo stesso con lui.
Erano europei. Avventurieri senza scrupoli. Li aveva seguiti per miglia nella
giungla, seguendo le tracce di distruzione che si lasciavano alle spalle.
Cercavano qualcosa. E per trovarlo non si facevano problemi a eliminare
qualsiasi cosa fosse sulla loro strada. Uomini. Donne. Bambine. Colpivano come
demoni vomitati dall’inferno. Nessuna pietà. Nessun rimorso.
Kane aveva attaccato quando era certo di riuscire a sorprenderli. Ma aveva
fallito.
Lo avevano avvistato prima loro. E a nulla era valsa la sua abilità di
spadaccino o la sua mira.
Erano più giovani di lui, più in forma.
Sarebbe morto.
Sentiva già le forze abbandonarlo.
Uno dei due fece per avvicinarsi a lui con un coltello. Volevano tagliarli la
gola.
Aveva pochi istanti per agire. Pochissimi.
Si trovavano su di un crepaccio. In fondo, molti metri sotto, scorreva un
fiume. Era la sua unica speranza. Almeno non avrebbero avuto il suo corpo. Non
avrebbero avuto il feticcio ju-ju.
Strinse la spada in pugno. Era andato all’inferno per recuperare quella lama.
Non l’avrebbe lasciata cadere in quelle mani immonde.
Chiamò a raccolta le forze, affidò la sua anima a Dio.
Tutti i muscoli del suo corpo, quelli che ancora potevano rispondere a una
chiamata del genere, si tesero. E scattarono.
Sotto gli occhi attoniti dei suoi avversari, Solomon Kane balzò in piedi per un
istante. Poi si voltò e si gettò, spada in pugno, nel crepaccio.
L’acqua gli venne incontro con la velocità di una pallottola.
Poi un sudario gelido lo ricoprì.
Cercò di lottare con la corrente, uscire dal fiume, ma con una spalla in quelle
condizioni non era possibile, neanche per lui.
Perse i sensi un attimo prima che il fiume venisse inghiottito dalla terra.
I due uomini si guardarono perplessi.
Lo spadaccino si era rivelato un nemico temibile. Molto di più di quanto non si
fossero mai aspettati. E la morte che aveva scelto per sé gli rendeva onore.
Restava da capire chi fosse. Perché li seguisse. Cosa ci facesse in Africa un
uomo del genere.
Domande inutili, perché era morto. Ne avrebbero parlato a Lord Arlington,
quando lo avrebbero incontrato. E nulla più.
Adesso dovevano sbrigarsi. Erano in ritardo sulla tabella di marcia. Se
volevano raggiungere per tempo il luogo dell’appuntamento avrebbero dovuto
sudare.
Lasciarono lì i corpi dei loro compagni caduti.
Li lasciarono ai loro simili.
A sciacalli e avvoltoi.
150 milioni circa di anni prima.
I passi del gigantesco sauro facevano tremare il terreno. La creatura avanzava
lentamente, affamata. Scrutava attorno a sé, alla ricerca di una preda.
Si fermò. Aveva fiutato qualcosa. Aveva sentito qualcosa.
Creature in avvicinamento. Capì la direzione da cui venivano.
In un instante, l’enorme massa di muscoli a due zampe partì a passo di carica.
Adesso il terreno saltava, letteralmente. Le cime degli alberi ondeggiavano.
Con un terribile ruggito sbucò dal fogliame in prossimità del branco di piccoli
dinosauri. Erano una dozzina, tutti coperti di scaglie ossee e robusti aculei.
Una buona protezione contro i dinosauri più piccoli, ma nulla che potesse
permettere loro di sopravvivere allo scontro con un tirannosauro affamato.
L’unica salvezza era la fuga. Sacrificare il più lento e debole del branco al
predatore.
Si dispersero, lanciando muggiti di disperazione.
Rimase indietro un solo esemplare. Una vecchia femmina con una zampa ferita
mesi prima in un agguato del genere. Troppo lenta per sopravvivere.
Il predatore le fu addosso in un balzo. La ribaltò con un colpo di zampa. La
femmina rimase bloccata sul dorso. Non riusciva a girarsi. Ma se anche ci fosse
riuscita non le sarebbe servito a nulla. Gli artigli e le zanne squarciarono e
distrussero.
Il predatore aveva trovato il suo cibo. Il resto del branco era in salvo.
La ruota della vita continuava a girare.
«Impressionante, no?», disse uno dei tre uomini nascosti tra le cime degli
alberi. Avevano osservato la scena dell’alto. «L’azione di caccia di un
tirannosauro. Il più grande dinosauro mai esistito. Una cosa incredibile, non
crede?».
«Penso di sì, signor Gulliver», rispose uno dei due, il più anziano. Aveva i
capelli bianchi e il fisico di chi ha smesso da troppo tempo di occuparsi del
suo corpo. A 65 anni, Thomas Perec era uno degli uomini più ricchi della sua
epoca. E aveva finanziato quel progetto. Assurdo secondo molti. Follia.
Viaggiare indietro nel tempo. Aveva investito in quella tecnologia. Miliardi.
Anni. Ma alla fine ce l’aveva fatta. Turismo temporale. Una volta che la
tecnologia fosse stata testata a sufficienza avrebbe fruttato altri soldi.
Infiniti soldi.
Perec amava sperimentare di persona quello che produceva. E un giro nella
preistoria era quello che aveva sempre sognato. Aveva addetti pagati per
esplorare le diverse epoche temporali. Gulliver era quello che si occupava di
quel settore. Un ex cacciatore, un biologo, un avventuriero. Con lui ci si
sentiva sicuri ovunque. Anche a pochi metri di distanza da una macchina di
morte come quella che si stava cibando sotto di loro.
Ci si sentiva così sicuri che si poteva portare con sé il proprio ultimogenito,
Simon Perec, un ragazzino di sedici anni che non sembrava particolarmente
impressionato da quello che stava vedendo. Guardava la scena annoiato, come se
stesse aspettando il momento di tornare a casa a farsi i fatti suoi.
«Ti annoi figliolo?», gli chiese il padre.
«No», rispose lui guardando in basso.
«Cosa ci propone adesso, signor Gulliver?», chiese Thomas Perec, appurato che
parlare con suo figlio era impossibile.
Gulliver, vestito della tuta necessaria a proteggere il corpo dalle insidie del
viaggio temporale, stava scrutando l’orizzonte.
«Sarà meglio tornare verso la cronocapsula, signore. Si stanno ammassando
nuvole che non mi piacciono per nulla. Trovarci qua nel mezzo di un temporale
non sarebbe sicuro», rispose. «Aspetteremo che il tirannosauro abbia finito il
suo pasto e ce ne andremo».
Simon sbuffò. Avrebbero dovuto camminare un’ora, fino alla maledetta
cronocapsula. Non si potevano portare mezzi di trasporto, nel passato.
Questioni di tecnologia, sembrava. Solo alcuni materiali potevano fare il
viaggio. E con quelli si riuscivano a fare fucili a raggi ma non mezzi a
motore. Bella fregatura.
Africa.
Vivo. Era ancora vivo.
Non riusciva a crederci.
La corrente lo aveva portato sottoterra, lo aveva inghiottito.
Aveva perso i sensi. Credeva che sarebbe morto annegato.
Invece, quando riaprì gli occhi era vivo.
Si trovava sulla riva di un fiume placido, una riva fangosa che aveva accolto
il suo corpo come un comodo giaciglio. Il freddo dell’acqua aveva anestetizzato
la spalla, ma non del tutto. Sentiva il dolore della pallottola pulsare ben
distinto, lo sentiva spandersi per il resto del corpo.
Se non l’avesse fatta uscire subito, rischiava di perdere il braccio.
Quella era la priorità. Curare quella ferita, la più grave. Le altre non lo
preoccupavano. Quella sì.
Raggiunse il coltello infilato nello stivale destro con la mano ancora libera.
Strinse i denti e fece penetrare la lama nella ferita aperta.
Il dolore lo aggredì con la violenza di un uragano. Il suo cervello lanciava
urla di dolore. Ma Solomon Kane le ignorò.
La punta del coltello aveva toccato la palla di piombo. Si era fermata contro
un osso, spezzandolo.
Raccomandò la sua anima a Dio.
Poi fece leva con il coltello.
La pallottola sfregò contro l’osso, spinta dalla lama.
Kane urlò. Il suo grido raggiunse le cime degli alberi, le superò, restò a
echeggiare nell’aria.
Ma non poteva fermarsi. Stringeva i denti così forte che la pressione li
avrebbe potuti disintegrare da un istante all’altro.
Fece un movimento più ampio e più violento di quello che avrebbe dovuto fare.
La lama attraversò la carne della spalle, allargò la ferita verso il braccio,
facendo zampillare fuori una mezzaluna di sangue vermiglio. La pallottola uscì
insieme al sangue, insieme a un brano di carne.
Lampi bianchi danzarono davanti agli occhi del puritano. Un frastuono intollerabile
invase le sue orecchie, escludendo ogni altro suono. Anche il suo urlo.
Poi perse i sensi, con il coltello ancora stretto in mano.
Le ragazze scesero verso il fiume ridendo e scherzando tra di loro. I vecchi
non avrebbero approvato, ma quello era l’unico modo che avevano per rendere più
tollerabile la giornata che avrebbero trascorso. L’unico modo per rendere
tollerabile il pensiero di quello che significava il fatto che fossero state
mandate al fiume.
Presto, lo sapevano, una di loro non avrebbe più potuto ridere e scherzare con
loro. Come ogni anno, il tempo della scelta era giunto.
Una di loro sarebbe diventata la sposa del dio bianco. Una di loro sarebbe
stata scelta da lui in persona, che avrebbe camminato tra di loro ancora una
volta. E nessuno l’avrebbe mai più rivista.
Per questo, erano state mandate al fiume. Si sarebbero lavate, profumate, fatte
belle. Nel pomeriggio sarebbero arrivate le donne più anziane per assisterle,
per completare la loro preparazione. Ma in quel momento, erano da sole. E la
minaccia di venire portate via dal villaggio non le preoccupava.
Cantavano una melodia allegra, facendo risuonare le loro voci brillanti sulle
palme, verso il cielo.
Alla testa della scomposta processione c’era Arima, la più anziana del gruppo.
Aveva quasi venticinque anni. Quella era l’ultima processione al fiume, per
lei. Se il dio non l’avesse scelta quella volta, non lo avrebbe mai più fatto.
Mai più. Il pensiero la riempiva di gioia. La faceva cantare a voce ancora più
forte delle altre. Sarebbe stata libera, per sempre. Per sempre. Era da quando
era diventata una donna, dodici anni prima, che viveva nel terrore. Alcune
ragazze speravano che il dio le scegliesse. Pensavano che vivere per sempre a
fianco di un dio non potesse che essere la cosa migliore che sarebbe potuta
capitare loro. Ma per lei non era così.
Per lei venire scelta dal dio significava una cosa sola: venire rapita.
Arima era una ragazza fiera e indipendente. Odiava che fossero gli altri a
scegliere per lei. E odiava l’idea che un dio esigesse un tributo simile da chi
lo venerava. Era vero: il dio bianco teneva lontani dal villaggio gli animali
della foresta. Ma faceva solo quello. Non sapeva fare altro.
Quando suo padre era stato ferito durante una battuta di caccia, il dio bianco
non aveva fatto nulla per aiutarlo. E suo padre era rimasto a lottare da solo
per tre giorni contro la morte che cercava di prenderlo. Tre lunghissimi giorni
di dolore, di sangue e di sofferenza. Alla fine la morte aveva vinto,
nonostante Arima fosse andata a piedi, attraverso la foresta, fino ai piedi
della montagna dove abitava il dio, offrendogli doni. Aveva rischiato la vita,
per farlo. Più volte aveva sentito i mostri della foresta respirare vicino a
lei, durante il tragitto. Uno era passato volteggiando sopra di lei,
addirittura. Lei si era fermata, aveva cercato di diventare tutt’uno con gli
alberi. Poi il mostro era scomparso. E il cuore di Arima aveva ripreso a
battere.
Ma era stato lo stesso tutto inutile. Suo padre era morto.
Solo quello contava. Che le stupide si facessero belle per il dio bianco. Lei
non l’avrebbe fatto.
Presto avrebbe compiuto il suo venticinquesimo anno. E allora avrebbe fatto
quello che sognava da quando suo padre non c’era più: avrebbe abbandonato la
valle. Si sarebbe incamminata lungo il fiume, o avrebbe rubato una barca. E
avrebbe scoperto cosa c’era oltre la grande barriera sul fiume, che i suoi
antenati avevano eretto all’alba dei tempi.
Immersa nelle sue fantasie, Arima non si rese nemmeno conto che le sue compagne
avevano finito la canzone. Lei continuò a cantare la melodia della strofa, ma
da sola.
Ci fu un nuovo, potente scoppio di risate.
Sulle prime lei non capì perché. Poi intuì e l’errore e si unì al coro.
«Non pensare troppo al dio, Arima», la canzonò Gelia. «Perché è me che
sceglierà! Tu sei troppo vecchia, ormai!». Gelia era da poco diventata donna.
Aveva la pelle nera e scintillante come l’ebano e gli occhi dolci di una
cerbiatta. Il suo corpo era ancora acerbo, ma già si poteva intuire che sarebbe
diventata una donna bellissima. In cuor suo Arima si augurò che la sua bellezza
ricevesse ben altri estimatori che il dio bianco. Mostrò la lingua alla
ragazzina, poi rise anche lei.
Il resto del cammino fu tutto un vantare le proprie virtù, tra le ragazze.
Arrivarono all’acqua poco prima che le canzonature bonarie diventassero vere e
proprie cattiverie e gli spintoni scherzosi tentativi di eliminazione fisica.
Arima aveva, suo malgrado, il compito di guidare i riti preliminari. Zittì le
ragazze e intonò il canto di ringraziamento al fiume. Recitò lei la prima parte
della preghiera, poi le voci delle altre si unirono alla sua. Quando ebbero
finito, si liberarono degli abiti che portavano indosso, che caddero
disordinatamente sulla riva.
Arima avanzò per prima dentro l’acqua, fino a che non fu immersa fino alle
ginocchia. Poi, come voleva il rituale, chiamò una per una le altre ragazze,
dalla più anziana alla più giovane. A mano a mano che le ragazze venivano
chiamate entravano anch’esse in acqua.
Fu una cosa rapida. Dopo un paio di minuti tutte e venti le ragazze erano in
acqua.
A quel punto, il rituale non prevedeva nulla di preciso. Dovevano solo stare in
acqua, per unirsi al fiume. Così, iniziarono a giocare, a schizzarsi e a
lottare scherzosamente.
Qualcuna aveva portato una palla di legno e iniziarono a giocare con quella.
Andò tutto bene fino a che Ulima, che aveva la stazza e la forza di un
guerriero, non lanciò così forte la sfera da farla scomparire oltre un canneto,
ad almeno una cinquantina di metri da dove si trovavano.
Ci fu un coro di proteste. Il protocollo prevedeva che nessuna di loro si
allontanasse da quel tratto di fiume. Per nessun motivo.
Ulima era robusta come un uomo ma aveva lo stesso animo di una ragazzina di
sette anni, e alle accuse delle compagne reagì singhiozzando. Alla vista delle
lacrime, le accuse si fecero ancora più feroci, approfittando del fatto che
tutti sapevano benissimo che Ulima era troppo buona e troppo spaventata di fare
del male a qualcuno per reagire.
«Piantatela!», urlò Arima, nauseata da quella scena. «Andrò a prenderla io. Non
è poi così lontana».
Il silenzio scese sul fiume con la forza di una mazza per la caccia. Le ragazze
guardavano Arima incredule. Il suo compito era quello di guidarle al rispetto
dei riti della preparazione, non quello di infrangere le regole.
Al silenzio si sostituì un coro di voci che sostenevano con parole diverse
tutte la stessa cosa: non si poteva. Era tabù. Non importava della palla. E se
proprio voleva non se la sarebbero presa con Ulima.
Ma era tardi. Arima era già scomparsa sott’acqua. La rividero emergere pochi
metri dopo, diretta a bracciate sicure ed eleganti verso il canneto. Nessuna di
loro osò muovere un passo per fermarla.
«È pazza», si limitò a dire Delora, che tra le ragazze del villaggio era
l’unica a conoscere l’insofferenza e il timore di Arima per il dio bianco. Ma
lo disse a bassa voce. Non voleva che nessuno sentisse.
Qualcosa urtò Kane e lo strappò alla sua incoscienza.
A fatica, aprì gli occhi e scoprì che era nello stesso luogo dove aveva perso i
sensi. Ma era trascorso del tempo: adesso il sole splendeva in cielo. Sentiva
la pelle scottare, forse per i raggi del sole o forse per via della ferita.
Accanto a sé aveva ancora i suoi oggetti, ma anche qualcos’altro: una sfera di
legno levigato, delle dimensioni della testa di un bambino. Era stata quella a
svegliarlo. La guardò incredulo, poi mosse un braccio per afferrarla. Ma come
mosse il braccio ferito, una nuova stilettata di dolore percorse in un attimo
il breve tragitto dalla spalla al cervello, e da lì si diffuse per il resto del
corpo, strappandogli un grido.
La ferita, sotto i suoi occhi, stava iniziando a diventare nera. I bordi
slabbrati erano meta di insetti alati e non. Aveva visto abbastanza uomini
feriti per sapere che cosa significasse, quello. Se non avesse trovato il modo
di curarsi, le conseguenze sarebbero state disastrose. Se teneva al suo
braccio, avrebbe fatto meglio a fare qualcosa.
Un rumore lo richiamò dai suoi pensieri: davanti a lui qualcosa stava arrivando
dal fiume.
Prima ancora che potesse prepararsi, dall’acqua emerse una ragazza. Era nuda,
dalla testa ai piedi, e sembrava stupita nel vederlo quanto lui lo era nel
vedere lei.
Kane non riuscì a distogliere lo sguardo da lei, dalla sua splendente nudità. I
raggi del sole facevano brillare la sua pelle nera bagnata come se fosse stata
metallo. Negli occhi, aveva lo sguardo fiero di una regina, e i folti capelli
crespi le scendevano sulle spalle come una criniera.
Sembrava una dea pagana appena sorta dall’acqua. Era una visione talmente
sacrale che solamente gli empi l’avrebbero ritenuta lasciva. Quella donna era
nuda, ma c’era in lei molta più dignità di quanta non ce ne fosse in molte
donne vestite. La sua nudità non era sensuale. Non era stata corrotta dal peccato
originale, dalla vergogna. Era pura e primordiale. Solomon Kane si chiese per
un attimo se quello non fosse l’aldilà. O il giardino dell’eden.
La ragazza rimase immobile, lì dov’era.
Kane tese una mano verso di lei. «Aiutami», articolò a fatica nel dialetto
della zona in cui era stato sconfitto.
Lei continuò a guardarlo stupita, incredula, come se non stesse capendo. Kane
ripeté la sua richiesta, più lentamente, staccando le sillabe, pretendendo dal
suo corpo e dalla sua mente più di quanto non fosse possibile.
Un lampo di consapevolezza attraversò lo sguardo della ragazza. Ripeté le
parole che lui aveva usato, ma con un accento diverso, con delle pause diverse.
Sorrise.
«Sei ferito?», gli chiese. Parlava lo stesso dialetto, ma in modo diverso. La
sua lingua era più antica di quella che Kane aveva imparato. Ricordava quella
che usavano gli sciamani per le loro formule magiche, per i loro riti.
«Sì», rispose lui indicando la spalla.
Lei gli si avvicinò, senza fretta. Sembrava intimorita da lui. E non aveva
alcun pudore, nel mostrarsi nuda. Non coprì il suo seno o il suo sesso. Avanzò,
semplicemente.
Kane distolse lo sguardo dal suo corpo. Da quando quella ragazza si era messa a
comunicare la sua sacralità era in qualche modo svanita. E il suo corpo era tornato
a essere umano. Umano, femminile e perfetto. Quindi pericoloso.
Sentì le dita della ragazza toccare i lembi della ferita. Ma percepì anche il
suo calore, il suo fiato, il suo odore.
Si sforzò di non reagire al dolore che gli causava il tocco sulla spalla, ma
non ci riuscì. Nonostante avesse stretto i pugni fino a sentire le unghie
conficcarsi nel palmo, le sue labbra lasciarono sfuggire un gemito soffocato.
La ragazza si ritrasse, spaventata. Fece qualche passo nell’acqua, poi si tuffò
e scomparve sotto la superficie.
Kane cercò di fermarla, di alzarsi e trattenerla, ma non ci riuscì. Era troppo
debole. Le gambe non lo ressero e ricadde nell’acqua.
Con rabbia, si rese conto che non era in grado di muoversi. Non ci riusciva.
Anche le gambe avevano subito dei danni nel fiume, anche loro avrebbero avuto
bisogno di cure.
Si maledisse. Si chiese se quello non fosse il segno che, alla fine, il Signore
lo aveva abbandonato. Che il suo destino si stava per compiere.
150 milioni di anni prima
Thomas Perec fu il più fortunato: morì subito.
L’artiglio del sauro gli squarciò la gola in un solo, elegante, movimento. Una
mezzaluna scarlatta di sangue balenò sotto la pioggia per un istante, andando a
perdersi sulle foglie.
Gulliver imprecò, mentre si buttava di lato, addosso al ragazzo.
Il suo fucile fece fuoco, una, due, tre volte, contro il rettile che era
sbucato dal fogliame. Le scaglie non potevano difenderlo dai raggi dell’arma.
L’aria si riempì del puzzo della sua pelle bruciata.
Il raptor rimase in piedi ancora per qualche istante, prima di stramazzare al
suolo.
«Tutto bene?», chiese Gulliver a Simon, aiutandolo a rialzarsi. Lo fece più per
spezzare il silenzio che per altro. Il ragazzo aveva appena visto suo padre
morire. Come poteva stare?
Simon tremava. Non rispose. A passi tremanti si avvicinò al cadavere del padre.
Gulliver cercò di trattenerlo, ma la sua mano perse la presa sulla tuta
bagnata.
Un istante dopo, Simon urlava la sua disperazione.
Gulliver non poteva farsi prendere dal panico. Non se voleva salvare la pelle
sua e del ragazzo. C’era ancora un miglio abbondante da percorrere per arrivare
alla cronocapsula. Un miglio in cui i dinosauri potevano essere ovunque.
Conosceva quella specie. Cacciava in branco. Se lì ne avevano visto uno, voleva
dire che non era da solo.
Il cadavere del vecchio poteva restare lì. L’importante era tornare a casa.
Simon era in ginocchio accanto al corpo morto. Lo accarezzava. E piangeva.
«Lo so che è difficile», disse al ragazzo. «Ma dobbiamo andarcene in fretta, da
qui. Molto in fretta. Mi spiace per tuo padre, ma non possiamo più fare niente
per lui. Solo salvarci. Poi manderemo qualcuno a prenderlo. Te lo prometto. Ma
ora muoviamoci, ti prego».
Simon alzò lo sguardo su Gulliver, ma non lo vide. Non c’era nulla negli occhi
del ragazzo. Era come se non fosse lì.
«L-lui non può essere morto», sussurrò. «Noi non siamo qui. Questo posto non
esiste. È un sogno… Solo un sogno!». Poi si chinò di nuovo sul padre.
La foresta si muoveva e risuonava di richiami. Gulliver sapeva cosa voleva
dire.
«Al diavolo, ragazzo! Stanno arrivando!», urlò.
Prima ancora che Simon potesse reagire, gli passò un braccio attorno alla vita
e lo sollevò da terra di peso. Era abbastanza forte per portarlo così fino alla
cronocaspula.
«Lasciami!», urlò Simon mentre si lasciavano il cadavere alle spalle,
prendendolo a pugni sulla schiena. Gulliver ignorò il dolore e continuò ad
avanzare, con il fucile pronto nell’altra mano.
Poi successe.
Un muso allungato sbucò dalle foglie. Fauci acuminate si chiusero con uno scatto
terribile a pochi centimetri dal suo volto. Gulliver fece fuoco, colpì il
cranio del mostro in pieno, in mezzo agli occhi. Il corpo del raptor crollò al
suolo, con il sangue che zampillava dal foro sulla fronte.
Simon urlò. Un altro dinosauro era sbucato fuori alle loro spalle.
Gulliver lasciò cadere il ragazzo e fece una torsione per riuscire a colpire il
nuovo nemico. Ma prima che riuscisse a premere il grilletto, altri due animali
gli furono addosso, fiancheggiandolo.
Simon sgusciò via, correndo verso la cronocapsula.
Il fucile di Gulliver fece fuoco, ma non servì a nulla.
«Scappa!», furono le ultime parole della guida.
Poi la sinfonia delle zanne e degli artigli ebbe inizio.
Africa.
Non credevano ai loro occhi. Nessuna di loro.
Arima le aveva convinte a seguirla oltre il canneto, infrangendo le regole
della loro preparazione. E là avevano trovato un dio.
Un altro dio bianco, dai lunghi capelli neri e dal volto fiero.
Si erano buttate in ginocchio, nell’acqua alta, distogliendo lo sguardo. Non
erano degne di ammirare così da vicino una divinità. Nessuna di loro.
Arima urlò, inveì contro di loro.
«Non state lì impalate! Andate a cercare le foglie del fiore di stella! E
portate delle bende! Non vi ho chiamate perché ve ne stiate lì inginocchiate!
Quest’uomo ha bisogno di cure!».
Solo un paio di loro ebbero la prontezza di reagire, di schizzare fuori
dall’acqua e di lanciarsi alla ricerca di foglie e bende. Le altre rimasero lì,
a fissarsi stupefatte tra di loro.
Uomo? Arima doveva essere impazzita, per non riconoscere un dio. E doveva
essere impazzita per avvicinarsi così tanto a lui. Voleva essere fulminata,
forse? E perché urlava davanti a un dio che riposava? Aveva intenzione di
svegliarlo e provocarne la collera?
«Ulima!», chiamò. «Vieni qua e aiutami a portarlo fuori dall’acqua!».
Ulima alzò il capo, confusa. E vide Arima che cercava di trascinare il corpo
del dio via dalle acque del fiume, come se fosse stata la carcassa di un
animale.
«Ma io…», disse, guardandosi attorno.
«Ti vuoi sbrigare? Forza!».
«Ma quello è un dio! Non dovresti toccarlo!».
«Uomo o dio ha una ferita che sta marcendo, e se nessuno lo aiuta rischia di
morire! Ora vuoi sbrigarti?».
A piccoli passi lenti, la ragazza si avvicinò al corpo di Solomon Kane. Adesso
anche le altre ragazze avevano alzato lo sguardo, e osservavano la scena con un
misto di timore e curiosità.
Ulima vide da vicino il corpo del dio. Vide la brutta ferita infetta che aveva
sulla spalla. Era uguale a quelle degli uomini, dei cacciatori. Arima aveva
ragione. Uomo o dio che fosse, aveva bisogno di aiuto. E non sarebbe stata lei
quella che l’avrebbe negato.
Afferrò da dietro l’uomo, mettendo le sue mani sotto le sue ascelle, e lo issò
a riva, senza alcuno sforzo.
Kane aprì gli occhi, a fatica. Era troppo stanco per ricordarsi di parlare
nella loro lingua: «Ti ringrazio», disse in inglese.
Sia Ulima che Arima fecero un balzo indietro. E lo stesso fece chiunque sentì
quelle parole uscire dalle sue labbra.
L’uomo aveva parlato nella lingua degli dei. Aveva parlato nella lingua del dio
bianco. Aveva usato la formula rituale con la quale il dio si accomiatava dopo
avere scelto la propria sposa.
Ulima si inginocchiò davanti a lui.
Arima si portò una mano alla bocca.
«Sei veramente un dio?», chiese quasi sussurrando.
«C’è un solo dio, giovane ragazza. Un solo vero dio. E io sono solo un suo
umile servitore», rispose Kane, cercando di farsi capire meglio che poteva,
attraverso il dolore e la confusione che stringevano d’assedio il suo cranio.
Arima sorrise, ammirata. Poi ripeté le parole di Solomon Kane a voce alta, in
modo che tutte potessero sentire. In modo che si decidessero ad aiutarlo senza
paura di venire fulminate o maledette in eterno.
Un brusio serpeggiò tra le ragazze ancora in acqua. Un sacerdote. Era un
sacerdote del dio bianco, e doveva essere molto potente, se aveva la pelle del
suo stesso colore e sapeva parlare la sua stessa lingua. Dovevano aiutarlo. Era
loro dovere. Così, forse, lui avrebbe intercesso con il dio perché scegliesse
colei che più lo aveva aiutato.
Fu Gelia la più svelta nell’afferrare al volo l’opportunità. Uscì dall’acqua di
corsa e si gettò accanto al sacerdote del dio bianco.
«Benvenuto, potente sacerdote», gli disse. «Il mio nome è Gelia e sono qui per
servire te e il dio bianco. Comanda e sarai obbedito».
Kane voltò il capo e la fissò con gli occhi vacui. Voleva dirgli di allontanare
il suo seno dal suo braccio, di smetterla di toccarlo in quel modo, ma non ci
riuscì. Troppo dolore, troppa fatica.
«Gelia, dannata vacca! L’ultima cosa di cui lui ha bisogno è la tua adulazione,
adesso!», ordinò Arima. «Se vuoi fare qualcosa di buono per lui, vai con le
altre a cercare le foglie del fiore di stella. O a prendere qualcosa per fare
delle bende».
«Troverò più foglie di chiunque altra!», promise la ragazzina alzandosi in
piedi e correndo verso la foresta.
Arima guardò soddisfatta le sue compagne intente a correre di qua e di là.
Forse sarebbero riuscite a salvare la vita a quello strano uomo.
Solomon Kane scoprì che le foglie del fiore di stella bruciavano come il
whisky sulle ferite. La prima applicazione gli strappò dalle labbra un gemito
di dolore, mentre tutta la spalla iniziava a bruciare come se fosse andata a
fuoco. Poi però il bruciore raggiunse un picco e diventò qualcosa di diverso.
Diventò fresco. Il dolore calò, mentre dalla ferita usciva del sangue nero,
malato, infetto.
Sorrise alla ragazza che stava tenendo premute le foglie contro la sua spalla.
Lei gli sorrise a sua volta, mentre puliva il sangue che colava con uno
straccio.
«Brucia un po’, ma pulisce il sangue», gli disse la ragazza. «Ti farà bene».
Poi tolse le prime foglie e le sostituì con delle altre. Questa volta Kane
osservò per bene il procedimento, e notò che le foglie erano di un tipo che non
aveva mai visto, durante i suoi viaggi in Africa. Erano poco più lunghe di un
pollice e seghettate lungo i bordi. La ragazza ne prendeva una manciata, le
spezzava in modo che facessero fuoriuscire la loro linfa e poi le premeva
contro la sua ferita. Di nuovo, sentì prima un dolore bruciante invaderlo,
seguito da una sensazione di benessere.
Attorno a lui, le altre ragazze si affannavano a portare quante più foglie
potevano.
«Possono bastare così», disse Arima a voce alta. Proprio in quell’istante,
sbucò Gelia, con in mano il suo misero raccolto, un mezzo pugno scarso di
foglie. Le posò accanto a Kane e poi gli si sedette vicino.
«Hai mai visto da vicino il dio bianco?», gli chiese. «E sai come tratta le sue
mogli? È vero che vivono tutte assieme in un palazzo di avorio e oro?».
Kane la guardò disorientato. La ragazzina parlava veloce, concitata. Capire di
che cosa stesse parlando non era semplice. Si voltò verso Arima, per chiederle
che cosa avesse detto. Ma la ragazza redarguì Gelia prima che lui potesse dire
qualsiasi cosa.
«Non lo vedi che è troppo stanco e ferito per risponderti? Ora qua non c’è
bisogno di te. Va’ con le altre, non stargli così addosso».
«E tu, allora?» ribatté lei. «Non gli stai forse addosso, tu? Speri che
interceda per te con il dio bianco, vero?».
Gli occhi di Arima si infiammarono, ma la sua voce restò ferma.
«Io resto qui perché sono l’unica di noi a sapere come si usano le foglie che
curano le ferite, ecco perché. E ora vattene, prima che perda la pazienza e
decida di farti punire dagli anziani».
Stizzita, Gelia batté in ritirata, unendosi alle altre ragazze, che
contemplavano da lontano la figura del sacerdote bianco.
«Di che cosa stavate parlando?» le chiese Solomon Kane.
«Del dio bianco, grande sacerdote. Lei vuole che tu interceda per lei presso di
lui. Ma non capisce che tu rischi di non arrivare a vedere la sua discesa al
villaggio, se non stiamo attente».
Ancora il dio bianco. Quante volte lo aveva già sentito nominare, da quelle
ragazze? Sembrava che fossero convinte che avesse qualcosa a che fare con lui.
«E perché io dovrei intercedere con il dio bianco?», chiese.
«Ma perché lui la scelga come sposa!», rispose Arima, stupita che il sacerdote
ignorasse una cosa così semplice.
«E cosa glielo fa pensare?»
«Il fatto che tu parli la lingua del dio bianco, la lingua sacra. A noi non è
permesso parlarla. Ma tu lo hai fatto. E solo i sacerdoti possono farlo. Quindi
tu sei un sacerdote. E la tua pelle è la stessa del dio bianco. Quindi tu devi
essergli molto vicino».
Kane la fissò.
«La tua mente è svelta, ragazza. Qual è il tuo nome?»
«Mi chiamo Arima»
«Il mio nome è Solomon Kane. Ma non so chi sia questo dio bianco di cui voi
state parlando. Io ho un solo dio. Ed egli non ha un colore»
«Ma… allora…», balbettò Arima a voce bassa, sperando che le altre non la
sentissero.
«Ascoltami. Io ti sono grato per avermi salvato la vita, ma non sono ciò che
credete. Sono un uomo come te, come loro. E non parlo la lingua di nessun dio.
Non quella terrena, almeno. Come si chiama questo posto?»
«Questo è un fiume, il Bura, il fiume sacro, l’unico che attraversa la nostra
valle. Ma se non conosci il dio bianco, perché la tua pelle è bianca come la
sua?»
«Dalla terra dove vengo io, gli uomini hanno la pelle di questo colore. Quello
che voi chiamate dio bianco deve essere uno della mia gente. Un impostore. Un
uomo che si spaccia per un dio».
La voce di Solomon Kane acquistò forza e vigore. Arima temette che le altre
potessero sentirlo e gli fece cenno di parlare a voce più bassa.
«Non hai mai visto uomini bianchi, ragazza?», chiese Kane.
«No. Solo il dio bianco. Del resto, nessuno di noi è mai uscito da questa
valle. Nessuno. Il dio bianco dice che questa terra è stata creata per noi. Che
non dobbiamo andare via dalla valle, scavalcare le montagne. Che fuori di qui
c’è il Male».
«Il Male è ovunque, ragazza. Anche in questa valle. E forse il male è proprio
il vostro dio bianco».
Kane iniziò a capire. La consapevolezza si fece strada attraverso il ciclo di
dolore e benessere attraverso il quale la ragazza lo stava facendo passare.
Lui aveva fallito nella sua caccia ai predoni. Ma aveva la possibilità di
riscattarsi. Di dimostrarsi che non era destinato alla dannazione. La sua vita
aveva ancora un senso. Le vie del Signore lo avevano portato in una terra
bisognosa di aiuto. Lo avevano portato tra gente prigioniera di un falso dio.
Un dio che lui avrebbe smascherato e punito, nel nome dell’unico Dio.
Sorrise, mentre una nuova energia iniziava a scorrere nelle sue vene.
Anche Arima sorrideva. Le parole dell’uomo chiamato Solomon Kane le
piacevano. Le piacevano perché le parlavano di un mondo al di fuori della
valle. Un mondo su cui il dio bianco non aveva potere, in cui sarebbe potuta
essere libera. Ma c’era anche di più. Quell’uomo diceva che il dio bianco era
un falso dio. Un impostore. E lo diceva con una rabbia nella voce e negli occhi
che faceva pensare che fosse intenzionato a porre fine al suo dominio.
Non sapeva come avrebbe potuto fare a uccidere un dio, ma Arima sperava, in
fondo al cuore, che ci riuscisse.
Lentamente, Solomon Kane scivolò nel sonno.
Le erbe medicinali avevano calmato il suo dolore, ma il suo corpo aveva ancora
bisogno di riposo.
Arima lo lasciò lì e tornò a occuparsi delle sue compagne, dei riti che
dovevano essere portati a termine.
Ma la sua testa era ingombrata dal pensiero di quello che era successo.
L’arrivo di quell’uomo era un evento straordinario, se ne rendeva conto. Poteva
essere la fine di tutto. Poteva essere un nuovo inizio.
L’ora di tornare al villaggio giunse in fretta, troppo in fretta.
Come voleva la tradizione, il sacerdote e i suoi apprendisti giunsero
percuotendo i tamburi. Dal sentiero non potevano scorgere Solomon Kane, ancora
sprofondato nel sonno, ma Arima era sicura che al loro apparire le sue compagne
si sarebbero precipitate a raccontare loro tutto. Ed era sicura che qualcuna di
loro avrebbe esagerato il suo racconto. Lo avrebbe reso pericoloso per l’uomo
bianco.
Non poteva permetterlo. Non se la sentiva. Boso, il sommo sacerdote del dio
bianco, era un uomo ambizioso e crudele. Una parola sbagliata e avrebbe fatto
uccidere il nuovo arrivato.
Doveva andargli incontro. Infrangere il rituale e andare incontro alla
processione sacra prima che giungesse alla riva. Parlare al sacerdote prima che
lui rivolgesse a lei la formula tradizionale.
Ulima capì quello che la sua amica stava per fare e cercò di fermarla tenendola
per un braccio. Ma fu troppo lenta. Arima schizzò fuori dall’acqua e corse
verso il sentiero. Le altre ragazze trattennero il fiato, davanti a quello che
ai loro occhi appariva come un vero e proprio sacrilegio. Delora innalzò una
preghiera silenziosa al dio bianco perché non la fulminasse. O perché non fosse
Boso stesso a ucciderla.
Ma nessuna si mosse dall’acqua.
«O grande Boso! Grande è il prodigio che vengo ad annunciarti!», declamò Arima
gettandosi ai piedi del sacerdote, incredulo per quello che vedeva.
La decana delle ragazze aveva infranto il rituale. Colei che aveva il compito
di guidare le sue compagne verso la purezza e il rispetto dei riti di
purificazioni stava peccando in modo talmente plateale da mozzargli il fiato.
Non riuscì a dire nulla. Fissava la donna china davanti a lui senza sapere che
cosa fare. Anche i suoi quattro assistenti erano stupefatti da ciò che stavano
vedendo.
Arima alzò il suo viso verso quello del sacerdote e ne incrociò lo sguardo. Era
turbato, più che furente. Segno che la sua iniziativa lo aveva spiazzato.
Doveva continuare, senza dargli tregua.
«Il dio bianco ha mandato un segno, sommo Boso. Ci ha inviato un uomo fatto a
sua immagine, ferito. Ha messo alla prova il nostro amore per lui e per le sue
fattezze. Noi abbiamo curato quest’uomo, lo abbiamo salvato. Ma nel farlo
abbiamo peccato. Abbiamo interrotto i riti sacri. Ora ho paura, sommo
sacerdote! Ho paura che il dio sia in collera con noi! E con me!».
Iniziò a singhiozzare, chinando di nuovo il capo verso la terra, sporcandosi
con il fango del sentiero.
Per un istante, Boso pensò che la ragazza fosse impazzita. Che avesse perso il
senno. Il suo discorso era sconnesso. Un uomo bianco! Come poteva esistere un
uomo fatto a immagine del dio bianco? Ed essere ferito, poi! Era ovvio che la
ragazza stava mentendo, per coprire qualcosa di ben peggiore di ciò che aveva
appena inventato.
Poi, però, trasalì. Alle spalle di Arima era apparso un uomo, sul sentiero.
Un uomo bianco.
La sua pelle era pallida come quella del dio bianco. E sulla sua spalla destra
si apriva una ferita tamponata con delle foglie.
Gli occhi di Solomon Kane e quelli di Boso si incrociarono. Quello che il
sacerdote vide negli occhi del nuovo arrivato non gli piacque per nulla.
Sebbene il volto di Kane fosse segnato dalla stanchezza, i suoi occhi erano
feroci. Erano gli occhi di un animale feroce. Gli occhi di qualcuno che non
avrebbe permesso a nessuno di fare del male alla ragazza prona sul sentiero.
Boso capì che doveva fare qualcosa. Dire qualcosa. La sua autorità rischiava di
vacillare. Non poteva permettersi uno smacco simile davanti ai suoi sacerdoti.
«Sei tu l’uomo che dice di essere l’inviato del dio bianco?», chiese con una
voce che avrebbe dovuto essere imponente ed enfatica, ma che suonò esile e
impaurita oltre ogni limite.
La voce di Solomon Kane, invece, risuonò profonda e decisa. Sibilò una semplice
parola. In inglese.
«Sì».
Nell’udire il suono della lingua sacra, gli uomini che accompagnavano Boso si
gettarono in ginocchio, con la faccia a terra.
Dentro di sé, Kane cercò di sorridere. La sua mossa si era rivelata corretta.
La lingua inglese incuteva timore e soggezione in quella tribù.
Boso non sapeva più cosa fare. La sua autorità era svanita in un istante solo.
Kane ne approfittò. Mosse le labbra in una specie di sorriso, per quanto il
dolore e la debolezza gli consentissero di fare.
«Alzatevi, tutti quanti, disse nella lingua locale. «Non c’è bisogno di
inginocchiarsi davanti a me, come il vostro sacerdote ha ben compreso». Non
voleva farsi idolatrare. E non voleva mentire. Non voleva peccare facendosi
passare per ciò che non era. Per il falso profeta di un falso dio. Per questo
doveva cercare di essere astuto. Era ancora troppo debole per combattere. Anche
contro un vecchio e quattro ragazzini.
Timidamente, i quattro assistenti si alzarono, un istante dopo Arima.
Proseguì:
«La ragazza ha detto il vero. Mi hanno trovato ferito e mi hanno curato. Senza
di loro, sarei morto. E per farlo hanno interrotto i loro riti. Hanno mostrato
misericordia e compassione».
Arima si voltò a guardare ammirata Kane. Aveva capito che cosa implicasse il
suo discorso.
Anche Boso lo aveva capito. Cercò di raccogliere i cocci della sua dignità e,
sollevando enfaticamente lo scettro d’osso che teneva in mano, proclamò:
«Allora sarà compito mio mostrare la misericordia di cui il nostro villaggio è
capace. Sarai nostro ospite, uomo bianco. Verrai curato e nutrito. E potrai
assistere, tra sette giorni, alla cerimonia in cui il dio bianco sceglierà la
sua sposa. Immagino che anche lui sarà contento di rivederti».
Kane ringraziò Boso in inglese.
Non gli era piaciuto il tono del sacerdote. Era chiaro che non era del tutto
convinto delle parole della ragazza. E che al villaggio avrebbe rischiato di
morire tanto quanto nella giungla. Ma non era nelle condizioni di fare nulla.
Aveva bisogno di riposo. E voleva capire dove fosse finito. Chi era il dio
bianco.
Ma soprattutto, doveva trovare un modo per tornare sulle tracce degli uomini
che lo avevano quasi ucciso.
Nonostante l’imprevisto, i riti di purificazione vennero portati a termine
secondo la tradizione. Kane rimase in disparte a osservare, turbato e
infastidito da quello sfoggio impudico di nudità. Si era trovato in una
situazione difficile da gestire, per lui. Mentire e bluffare non erano attività
che gli si confacevano. Non erano attività che si confacevano a un servo di
Dio. Ma sentiva di non avere altra scelta. Una settimana di riposo gli avrebbe
permesso di rimettersi in sesto, pensava. Se mentire era il prezzo da pagare
per ricevere l’ospitalità di quella gente, allora avrebbe mentito. O quantomeno
non avrebbe rivelato la verità.
Si disprezzò, in silenzio, più tardi mentre camminava faticosamente verso il
villaggio. Sottigliezze del genere erano più adatte ai papisti che a un uomo
come lui.
Chi lo aveva costretto in quella situazione avrebbe pagato anche per quello,
giurò solennemente, stringendo i pugni. Avrebbe pagato tutto. Ogni morto, ogni
ferita, ogni distruzione.
Il villaggio non era granché diverso dagli altri che Kane aveva conosciuto
in quella zona.
Capanne sparse in uno spazio rubato alla foresta. Uomini e donne seminude
ovunque, trofei fuori dalle tende dei cacciatori, una capanna più grande per il
capo villaggio e un tempio.
La processione era attesa dall’intera popolazione (non più di centocinquanta
anime, contò Kane), disposta all’imbocco del sentiero sacro che conduceva al
fiume. Il capo del villaggio, secondo il rituale, avrebbe benedetto e baciato
le ragazze, prima che queste venissero chiuse nella capanna sacra (costruita
mentre loro erano via) nella quale avrebbero atteso la venuta del dio. Per
sette giorni, nessuno, a parte i sacerdoti avrebbe più rivisto le promesse del
dio bianco.
La presenza di un uomo bianco nel corteo, però, gettò nel silenzio e nello
stupore gli astanti. Il capo villaggio, un vecchio rotondo e pieno come un
uovo, quasi non si strozzò con il frutto che stava assaporando, e quasi cadde
dal suo trono nel goffo tentativo di mettersi in ginocchio. In un attimo,
l’intera popolazione stava con la fronte a terra, incapace di alzare lo sguardo
su Solomon Kane.
Non c’era dubbio: quell’uomo alto, bianco, con lo sguardo fiero e i lineamenti
asciutti come un anno di siccità non poteva che essere un dio. Un altro dio
bianco sceso nel loro villaggio per qualche insondabile motivo. Armato di un
lungo pugnale scintillante e di un bastone della magia.
Ci volle tutta l’autorità di Boso per convincere i selvaggi che Solomon Kane
non era un dio, ma solo un messo del dio bianco. Un messo che il dio bianco
aveva mandato tra loro per mettere alla prova il loro amore per lui e i suoi
simili. Un messo che sarebbe ritornato alla dimora degli dei assieme al dio
bianco.
A poco a poco, alzarono lo sguardo sull’uomo bianco. Kane cercava di mantenere
un’espressione più neutra possibile, mentre studiava la situazione. Gli uomini
in armi non erano molti. Non più di una ventina tra cacciatori e guerrieri. Il
resto erano donne, vecchi e bambini. Gli armati non erano numerosi, ma avevano
l’aspetto feroce e pericoloso. Come se fossero abituati a lottare contro
creature spaventose. E, a giudicare dagli artigli che alcuni di loro portavano
al collo come ornamento, doveva essere proprio così. Il più grande lo portava
un giovane che, anche da inginocchiato, non cessava di fissare Kane con i suoi
grandi occhi scuri. Non c’era timore o soggezione, negli occhi di quel ragazzo,
lo spadaccino se ne rese conto subito. Lo fissava perché lo stava studiando.
Stava studiando l’avversario. Stava cercando di capire quali fossero stati i
suoi punti deboli, nel caso avesse dovuto lottare con lui. Ma i suoi sguardi
non erano solo per Solomon Kane. Fissava Arima con la stessa intensità con la
quale si contempla una cosa preziosa. E Kane con l’attenzione con cui si scruta
un potenziale nemico. Lo spadaccino registrò l’informazione, poi si preparò a
fronteggiare la cordiale espansività del capo del villaggio, che gli si stava
facendo incontro con un enorme sorriso stampato sul volto.
«Io, Ognilim’Ba, ti do il benvenuto nella nostra dimora, messaggero del dio
bianco!», disse alzando solennemente le mani al cielo. «Ogni tuo desiderio sarà
un ordine, per noi. Chiedi e sarai esaudito».
«Non sono degno di questi onori, possente re», si schernì Solomon Kane. «Ma
sono felice di potere essere ospite tuo e della tua gente. Tutto questo vi
guadagnerà dei meriti nell’alto dei cieli, Ognilim’Ba. Grazie!». L’ultima
parola, in inglese, suscitò l’effetto desiderato: un’ondata di stupore e
felicità si sparse tra gli indigeni. Kane sorrise, poi pregò il re di
proseguire nei riti sacri.
Così fu.
Il vecchio uomo si avvicinò alle ragazze e le benedisse con una formula
rituale, il cui suono turbò Kane. Era in inglese, e si trattava di un
apprezzamento alla bellezza femminile ben più adatto a un postribolo che a una
cerimonia sacra. I fatti seguenti erano in linea con le parole: ogni ragazza
venne baciata lascivamente sulle labbra e accarezzata sul petto e sulle natiche
dal re.
Quando toccò ad Arima, Solomon Kane vide i pugni del giovane dallo sguardo
fiero serrarsi con forza e le sue labbra muoversi in silenzio. Avesse potuto,
il ragazzo sarebbe saltato alla gola del suo re. Lo avrebbe ucciso a mani nude
per avere profanato colei che amava. Non che Kane riconoscesse a prima vista
l’amore. Ma sapeva riconoscere l’odio verso un altro uomo e sapeva bene come
questo potesse nascere dall’amore per una donna.
Le ragazze sopportarono l’usanza senza lasciar trasparire alcuna emozione.
Qualcuna sembrava forse divertita, da quello che stava succedendo, specie le
più giovani. Ma i loro occhi tradivano insicurezza e tensione. Di lì a pochi
istanti sarebbero state segregate in uno spazio sacro. E una di loro non
sarebbe mai più tornata alla vita normale. Sarebbe diventata la sposa di un
dio. Un dio che parlava inglese e imponeva come sacre espressioni scurrili. Un
impostore, senza dubbio. Un bianco impostore che approfittava della buona fede
degli indigeni. Kane pregustava già il momento in cui lo avrebbe costretto a
pagare per i suoi peccati. Non poteva che essere quello, il motivo per cui si
trovava lì.
Guardò sfilare via le ragazze.
Ognilim’Ba insistette perché l’uomo bianco fosse ospitato nella sua grande
capanna. Kane non riuscì a opporsi. Era troppo stanco e l’idea di avere un posto
dove riposare, dovunque questo potesse trovarsi, lo fece capitolare. Nel giro
di pochi minuti, si era trovato sdraiato su un soffice giaciglio all’interno
della più grande capanna del villaggio. Di fatto, era come se avesse a
disposizione una stanza in una locanda. Una parete di legno, con un’apertura
coperta da una tenda, lo separava dal resto dell’edificio.
Fissando il soffitto di fibre intrecciate, cercò di non fermare la sua mente.
Da fuori veniva il rumore dei preparativi di una festa, non aveva capito se in
suo onore o per celebrare l’inizio del periodo di isolamento delle ragazze, e
dormire era impossibile.
Poi, qualcosa attrasse la sua attenzione. Era il teschio di un animale. Un
teschio come Kane non aveva mai visto prima. Era lungo quasi quanto il suo
avambraccio e alto almeno un piede. Osservandolo bene, poteva ricordare quello
di una lucertola.
«Quel trofeo è mio», disse una voce alle sue spalle.
Kane si voltò allarmato: sulla porta era apparso il ragazzo che aveva osservato
al suo arrivo al villaggio. Non lo aveva sentito entrare, con il rumore che
entrava da fuori.
Non sembrava avere intenzioni ostili, ma lo spadaccino sentì lo stesso un
brivido lungo la schiena: fosse stato un nemico, si sarebbe lasciato
sorprendere come uno sciocco.
«Che animale è?», chiese lo spadaccino. «Non avevo mai visto nulla di simile,
prima».
Il ragazzo sorrise, mentre l’orgoglio illuminava il suo sguardo.
«È il teschio di una delle grandi lucertole. Vivono nella foresta attorno al
villaggio. È il dio bianco che ci difende da loro, ma a volte il suo sguardo
non è così attento. Quella l’ho uccisa due lune fa, mentre cacciavo. Quello che
porto al collo è il suo artiglio. Uno dei suoi artigli».
Fece una pausa. «Strano che un messo del dio bianco non lo sappia», riprese, fissando
Kane.
«Ci sono molte cose di questo posto che io non so. Anche se ho la pelle come il
dio bianco, non ne ho i poteri», rispose l’inglese, turbato. Quel ragazzo
voleva arrivare da qualche parte con quel discorso, glielo si leggeva in
faccia.
«Lo immagino», disse. «Tu non devi essere altro che un uomo che viene da fuori
della valle. Un uomo come me. Come tutti noi».
«E se fosse? Che ne sai tu di cosa esiste fuori dalla valle?».
«Lo so. Ho scalato le montagne proibite. Ho visto cosa c’è di là. È un mondo
uguale a questo. Solo più ampio. E sulle montagne ho visto di corpi di uomini
con la pelle come la tua. Uomini morti. Non solo. A volte li ho visti passare,
nel fiume, altri cadaveri bianchi. Non mi inganni, uomo bianco. Tu non sei il
messo del dio bianco».
Il ragazzo era tutt’altro che stupido, si disse Kane. Ma era esattamente ciò di
cui aveva bisogno. Qualcuno che gli spiegasse molte cose.
«E come mai sei tornato indietro, dal mondo oltre le montagne?».
«Mi interessava sapere che esisteva. Sapere qual è la via per andarmene. Per
quando scapperò di qui con la mia donna!».
«Arima?», chiese Kane. Era il suo turno di stupire il ragazzo, quello.
Ma il giovane guerriero si dimostrò imperturbabile.
«Lei. Dopo che il dio bianco sarà venuto e avrà scelto la sua sposa, io e lei
scapperemo di qui. Scapperemo dal dio bianco. Dalla sua cattiva magia».
«E se il dio bianco dovesse scegliere proprio lei?»
Lo sguardo del ragazzo diventò ancora più serio di prima, quando rispose:
«Allora ucciderò il dio bianco. O morirò nel tentativo. Nessuna sposa del dio
bianco è mai tornata dopo essere stata scelta da lui. E non avrebbe senso
vivere senza Arima, per me».
«Sei un ragazzo coraggioso», proclamò Solomon Kane. «Deve essere stato il
Signore a mandarti sulla mia strada. Il mio nome è Solomon Kane e vengo dal
mondo esterno, come immaginavi».
Tese la mano al ragazzo, che la strinse forte nella sua.
«Io sono Yortan, primo nato di Ognilim’Ba. Mi aiuterai nella mia impresa?».
«La mia spada è al tuo fianco, Yortan, ma avrò bisogno di cure, prima che io
possa impugnarla come si deve. E, nel frattempo, dovrai spiegarmi molte cose
che ancora mi sono oscure».
«Riceverai tutte le cure di cui un guerriero ha bisogno. E avrai tutte le
risposte di cui hai bisogno. Ma prima danne tu una a me: il bastone intagliato
che porti con te può uccidere un dio?».
Kane guardò il feticcio ju-ju, il bastone della magia che gli era stato donato
dallo stregone M’Longa. I suoi poteri avevano più volte avuto la meglio sugli
orrori che quella terra custodiva nel suo cuore. Forse perché era fatto
anch’esso della stessa materia di cui erano fatti i misteri dell’Africa. Forse
perché era appartenuto a Re Salomone, che ne aveva fatto uso per sconfiggere i
demoni. Kane evitava di domandarselo, se poteva. Il mistero di quell’oggetto,
la sua contraddizione, lo turbava più di qualunque avversario con cui avesse
mai incrociato le lame.
«Forse può farlo», rispose alla fine. «Ma non ce ne sarà bisogno. Il vostro dio
bianco è un uomo come noi. E basteranno la mia spada e i tuoi giavellotti a
porre fine alla sua impostura, Yortan».
Quella notte, partecipò al banchetto in onore delle promesse spose del dio,
seduto tra Boso e Ognilim’Ba. Parlò poco, nonostante le continue richieste del
re e i tranelli che il sacerdote gli poneva in continuazione. Anche se Yortan
gli aveva spiegato nei dettagli molte cose sulle usanze della sua gente, non
voleva tradirsi apertamente davanti a Boso. Le conseguenze sarebbero potute
essere pessime.
Così, dedicò la sua attenzione al cibo, mangiando con moderazione ciò che
sapeva lo avrebbe aiutato a superare la debolezza della ferita ed evitando una
bevanda con cui i membri della tribù sembravano più che lieti di ubriacarsi.
Ben presto, la festa si trasformò in una confusione indescrivibile di tamburi,
urla e danze, che non escludeva nemmeno le donne presenti, quelle che erano
state scartate dal dio bianco e che erano ormai troppo vecchie per venire
scelte da lui. Il limite di età, gli aveva spiegato Yortan, era di venticinque
anni. Oltre quella data, il dio bianco non le voleva più e potevano andare in
sposa agli uomini della tribù. Fino a che una donna non fosse stata scartata
definitivamente del dio, nessuno avrebbe potuto averla. In nessun modo.
Dovevano giungere al suo cospetto pure. La pena per chi trasgrediva era la
morte.
Quando il frastuono diventò insopportabile, Kane si defilò dalla festa. Nessuno
fece caso a lui.
Si infilò nella sua stanza, recitò le sue preghiere e si coricò sul giaciglio.
Poteva dormire tranquillo: sapeva che Yortan aveva preso l’impegno di vigilare
su di lui e di occuparsi delle sue cure, scavalcando Boso e la sua traballante
autorità.
Il sonno lo accolse tra le sue braccia pochi istanti dopo aver chiuso gli
occhi.
150 milioni di anni prima
Aveva fatto come gli aveva detto il signor Gulliver. Era scappato.
Le urla erano rimaste dietro di lui. Si erano mescolate con il frastuono dei
tuoni.
La cronocapsula era lì, a pochi metri. La salvezza era a pochi metri da lui.
O forse era solo un incubo. Un orribile incubo.
Presto sarebbe suonata la sveglia e avrebbe scoperto che non era vero nulla.
Che suo padre non era stato sbranato dai mostri preistorici. Che suo padre non
aveva mai finanziato quei dannato viaggi nel tempo.
Che lui non era andato con lui nel qualcosozoico.
«Scappa!». L’urlo di Gulliver echeggiava ancora nelle sue orecchie.
Spingeva le sue gambe avanti, un passo frenetico dopo l’altro. Un passo sempre
più lontano dall’incubo. Sempre più vicino al risveglio.
Ce l’aveva fatta.
La sua mano afferrò la maniglia della capsula, si strinse attorno alla lega di
alluminio, ne apprezzò la freddezza, la perfezione tecnologica.
La tirò a sé.
Fu allora che successe.
Fu in quel momento che il mondo esplose, in un bagliore bianco. Le sue orecchie
si riempirono di un suono assoluto. Non c’era più spazio per nulla.
E poi il suo corpo. Era come se stesse bruciando. Come se migliaia di ganci lo
stessero tirando in tutte le direzioni, lacerandolo.
Cercò di urlare, ma non riuscì a sentire la sua voce.
Non poteva vedere. Non poteva sentire. Non poteva urlare.
Pensò di essere morto.
Ma poi aprì gli occhi.
E ci riuscì.
Aveva davanti le fauci di uno dei mostri, aperte. Dai denti affilati come lame,
colavano lunghi filamenti di bava e di sangue. Il sangue del signor Gulliver.
Il sangue di suo padre.
Simon Perec urlò, con quanto fiato aveva in gola. Urlò via tutto il suo odio,
tutta la sua paura, tutta la sua rabbia, tutta la sua impotenza.
Lo fece come lo farebbe un bambino disperato, senza più nulla da perdere.
E scoprì che non era quello. Che non era più un bambino senza nulla da perdere.
Dal suo corpo, si irradiò un’onda di energia. Un’onda così potente da spazzare
via il branco di dinosauri, ridurli ad ammassi fumanti di materia. Un’onda così
potente da annichilire un miglio di foresta attorno a lui, e tutta la vita che
essa conteneva.
Simon guardò quello che aveva fatto, incredulo.
Poi scoppiò a ridere, emettendo un fiume di vocali isteriche.
Non gli importava più nulla di suo padre o del signor Gulliver.
Non gli importava più nulla del suo tempo.
Non gli importava più nulla.
Ora aveva il Potere.
Il Potere.
Africa
Furono necessari tre giorni a Solomon Kane, per riprendersi dalle ferite. Le
erbe medicinali che gli venivano somministrate si erano rivelate più potenti di
quanto non si sarebbe mai aspettato e, unite al riposo, lo avevano rimesso in
condizioni di agire di nuovo.
Quando la mattina del quarto giorno uscì dalla capanna di Ognilim’Ba, il sole
splendeva alto in cielo e l’aria era così tersa che le montagne che
circondavano la valle su ogni lato erano più visibili che mai. Per la prima
volta, si rese conto di trovarsi in una vera e propria trappola di roccia,
dalla quale sarebbe dovuto uscire, in un modo o nell’altro. Con Yortan aveva
parlato spesso, in quei giorni, della via che lui aveva trovato tra le
montagne, delle difficoltà che avrebbero incontrato, delle strade da seguire
per raggiungerle. Da quello che aveva capito, una volta fuori di lì si sarebbe
trovato non lontano dal luogo dove era stato ferito. Con un po’ di fortuna,
avrebbe potuto continuare la sua caccia.
Ma ora l’importante era scovare il «dio bianco» e sconfiggerlo. Quella era la
promessa che aveva fatto a se stesso, per ripagare chi lo aveva aiutato e
tratto in salvo. Una volta onorata quella, sarebbe potuto partire. Non prima.
«Finalmente sveglio, uomo bianco!» lo apostrofò Yortan, vedendolo uscire dalla
capanna. «Sei pronto per la caccia?».
Kane annuì. Aveva promesso che sarebbe andato a caccia con Yortan e altri
giovani della tribù una volta che si fosse ripreso. Voleva capire qualcosa di
più del posto in cui si trovava, capire su quali guerrieri potesse contare o
meno per affrontare il dio bianco. E imparare la via che lo avrebbe condotto
fuori di lì, nel caso a Yortan fosse successo qualcosa di brutto.
Dopo un’ora di marcia, Solomon Kane si rese conto di non avere mai visto una
giungla come quella. Le foreste dell’Africa erano incubi rispetto a quelle
dell’Europa: le piante crescevano ovunque, lottavano tra di loro per
conquistare ogni raggio di luce, mettendo in mostra forme, colori e odori
stupefacenti. Si poteva sentire tutta la loro vitalità agitarsi e scalpitare
sotto ai propri piedi, mentre le si percorreva. Ma quella giungla era ancora
peggio, ancora più viva, intricata, selvaggia, aliena. Piante mai viste prima
crescevano ovunque, gigantesche. Rispetto a quella, le altre giungle africane
apparivano come i giardini di una villa italiana.
E poi c’erano gli animali. Le prede che finivano trafitte dalle armi dei
cacciatori di Yortan appartenevano a specie che Kane non aveva mai visto. Molti
erano rettili, ma altri erano piccoli mammiferi, diversissimi da tutto quello
che conosceva.
Yortan si rese conto dello stupore dell’inglese. «Non avevi mai visto nulla del
genere, vero?».
Kane scosse la testa in silenzio. Aveva visto cose ben più orribili, in
effetti. Ma quelle non cercavano di apparire naturali, erano demoniache,
orripilanti, malvagie. Quello che aveva davanti agli occhi, invece, era il
frutto della Creazione, al pari del mondo che lui ben conosceva. Anche quella
foresta era stata creata dal Signore, anche quella faceva parte del suo
disegno, cantava la sua gloria.
Yortan ignorò la sua risposta, mentre si faceva strada attraverso l’intrico
della vegetazione a colpi di una specie di lama di pietra, aiutato da Kane che
faceva la stessa operazione con la sua spada.
«Da quando sono passato l’ultima volta, le piante sono cresciute molto.» disse.
«Ma è questa la strada, ne sono certo. Se osservi gli alberi, noterai ancora
che ci sono dei segni, dei tagli. Li ho fatti io, per ritrovare la via. Ognuno
di loro indica in che direzione muoversi».
«Vedo,» disse Kane. «Quanti giorni di cammino ci vogliono, da qui?»
«Una giornata e mezza, camminando veloci, per arrivare fino ai monti. Due, se
la vegetazione è così fitta dappertutto. Poi da là il cammino diventa più
facile, c’è una specie di antica strada. Doveva venire usata quando ancora non
era proibito uscire dalla valle. La parte difficile è superare una frana,
gigantesca, che blocca la via. Deve essere stata causata dal dio bianco, per
impedire la fuga. Ma se si sa scalare, non è difficile superarla.»
«E Arima ce la farà?»
«Dovrà farcela. Sarà la sua prova d’amore per me.»
Kane guardò Yortan, assorto nel suo lavoro di apripista. Gli occhi del ragazzo
si infiammavano non appena qualcuno nominava la ragazza. Ed era sempre pronto a
parlare di quanto lui la amasse. Mai, però, aveva fatto riferimento a
sentimenti simili espressi nei suoi confronti da lei. Kane si domandò quanto
lei fosse a conoscenza dell’amore di lui. Per un attimo, pensò di
chiederglielo. Poi la cosa gli passò dalla mente. Un suono inatteso gliela fece
passare dalla mente.
Era come un ringhio, in lontananza. Un ringhio sommesso e prolungato, al quale
ne fece eco un altro, più basso e rapido. Non assomigliava a nessun verso che
avesse mai sentito in vita sua.
Prima che potesse chiedere che cosa fosse, vide tutti i suoi compagni cadere in
preda all’agitazione. Istintivamente, strinsero più forte le loro armi,
tacquero e si compattarono, formano un cerchio schiena contro schiena. «Non è
possibile!» disse Yortan.
«Cosa non è possibile?» chiese Kane, che si era unito alla formazione
difensiva.
«Quel verso. Il dio bianco tiene lontane dalle nostre pista (piste) di caccia
le grandi lucertole! Specialmente prima della cerimonia della scelta!».
Tutto il gruppo di cacciatori era in preda all’agitazione: gli respiravano
faticosamente e si muovevano a piccoli scatti, ognuno tenendo gli occhi fissi
su una porzione di foresta.
«Grandi lucertole?» provò a domandare Kane a Yortan.
Ma la sua domanda rimase senza risposta.
La foresta alle sue spalle esplose in un fruscio di fogliame e un ruggito
squarciò l’aria. Prima ancora che Solomon Kane facesse in tempo a voltarsi, si
sentì il rumore della carne che si lacerava e il grido di dolore di uno dei
cacciatori.
Le grida degli altri uomini diventarono spasmodiche, un misto di rabbia,
terrore e incitamento.
Quello che si trovavano di fronte, per Solomon Kane aveva un nome antichissimo
e terribile: draco. Senza ombra di dubbio, quel grande rettile bipede, alto
poco più di un uomo e con le fauci irte di zanne non poteva che essere una
delle bestie di cui raccontano le cronache medioevali, uno dei più grandi
nemici dell’uomo e dei più fedeli servitori di Satana, se non una delle sue
forme predilette.
Senza pensare, senza una tattica, senza alcun sentimento che non fosse la
rabbia, Kane si lanciò contro al mostro impugnando la spada a due mani e
tenendola puntata davanti a sé, come se fosse stata una lancia.
L’acciaio spagnolo che stringeva tra le mani ebbe via facile, attraverso le
scaglie che proteggevano la gola del drago, a differenza delle armi di pietra
dei neri che combattevano al suo fianco. La lama affondò in profondità, fino a
che la sua punta non sbucò dall’altra parte del corpo del mostro. L’impeto
della carica spinse lo spadaccino contro di lui, lo mando a sbattere contro il
suo petto, alla portata delle sue corte zampe anteriore, mentre le fauci, negli
spasmi della morte, cercavano di chiudersi sulla sua testa. «Kane! Le gambe!»
urlò Yortan e fu in quel momento che lo spadaccino si rese conto che aveva
ignorato l’arma più pericolosa di cui il drago disponeva: il poderoso artiglio
che ogni sua zampa possedeva.
Vide una di quelle mezzelune gigantesche alzarsi e dirigersi contro la sua
gamba. Se lo avesse colpito, sarebbe stata la morte per lui, una morte orribile
e lenta per dissanguamento. Ma Kane reagì per tempo e, puntellandosi con un
piede contro il corpo del mostro, riuscì a sfilarsi di scatto da
quell’abbraccio, volando all’indietro. La lama uscì dalla gola seguita da uno
zampillo di sangue e l’artiglio colpì soltanto l’aria a pochi passi da lui. Poi
il drago cadde all’indietro e restò a terra immobile, mentre il suo sangue si
perdeva nel terreno.
Ma non era finita, perché nell’istante in cui Kane aveva liberato la sua lama
dal corpo del mostro, un altro era uscito dalle foglie alle loro spalle,
azzannando uno dei cacciatori, che era stato colto di sorpresa. Gli altri si
fecero sotto al nuovo avversario, cercando di tenerlo a bada con le loro lance,
mentre Kane si rialzava rotolando a terra su se stesso.
Prima che fosse di nuovo in piedi, altri due cacciatori erano caduti, colpiti
dai letali artigli della creatura e lo stesso Yortan sembrava in difficoltà,
nonostante fosse senza dubbio il più esperto e abile tra di loro.
Urlando, Kane si gettò nella mischia, di nuovo caricando, ma questa volta la
fortuna non gli arrise e dovette schivare all’ultimo istante le fauci del
mostro che si stavano per chiudere su di lui. Tutto ciò che riuscì a fare fu solo
di ferirlo di striscio a una delle due corte zampe anteriori, mentre dovette
lottare con il suo senso dell’equilibrio per non cadere al suolo.
Poi le cose precipitarono, quando un’altra creatura si affiancò alla prima,
abbattendo altri due cacciatori. A quel punto, erano rimasti solo lui e Yortan,
schiena contro schiena, circondati dai cadaveri dei compagni.
«Questa è la fine, uomo bianco» disse Yortan, mentre i due mostri giravano loro
intorno, come se li stessero studiando.
«Allora finiamo combattendo, come conviene agli uomini» gli fece eco Solomon
Kane, un istante prima che le due bestie tendessero i loro muscoli per l’ultimo
assalto.
Assalto che non ci fu mai.
D’improvviso, l’aria esplose in una serie di bagliori rossastri, crepitando
come se fosse stata viva. Fu come se un fulmine fosse caduto lì accanto,
accecando e assordando i due uomini per qualche istante.
Quando Yortan e Kane riaprirono gli occhi, i due mostri non c’erano più. Al
loro posto, si trovavano due carcasse annerite e fumanti.
Kane guardò in alto, verso quel poco di cielo che le piante permettevano di
scorgere. Per un attimo gli parve di vedere balenare sopra di loro una sagoma
argentata.
«Ecco, Solomon Kane» gli disse Yortan. «Questo è il potere del dio bianco.
Questo è il potere del nostro nemico.»
Kane e Yortan tornarono al villaggio un’ora dopo l’imbrunire. Dietro di
loro, trascinavano una rudimentale slitta sulla quale erano adagiati i corpi
dei compagni caduti. La fatica aveva stravolto i loro volti, che sembravano
orribili non meno di quelli dei morti.
Lo strazio dei parenti che seguì non fu affare di Solomon Kane: andò a
rifugiarsi nella sua capanna, per togliersi di dosso almeno in parte il sudore,
il sangue e lo sporco. Da fuori arrivavano urla scomposte, pianti e la voce di
Yortan che raccontava quello che era successo. Raccontava di come l’uomo bianco
avesse affrontato le bestie con forza e audacia, prima che il dio bianco
posasse su di loro il suo occhio benevolo.
Kane aveva dei dubbi che l’occhio del dio bianco fosse benevolo come sembravano
credere quegli uomini. E sapeva che lo stesso Yortan aveva dubbi simili ai
suoi. Ma la dimostrazione di potenza alla quale aveva assistito lo aveva
lasciato senza fiato. Un istante prima, aveva davanti a sé due bestie vive,
feroci, letali. Un battito di ciglia dopo, erano carbonizzate.
Se quello era il potere del dio bianco, il dio bianco non era un semplice
impostore, come si era aspettato. Doveva essere uno stregone, come minimo.
Quella terra, l’Africa, sembrava vomitare misteri a ogni passo che lui faceva.
Posò lo sguardo sul feticcio ju-ju: era quella la sua unica difesa contro i
segreti di quel continente. Ed era un mistero esso stesso, in molti suoi
aspetti. Ma gli aveva già salvato la vita più volte di quante non potesse
ricordarsi.
Se non lo avesse trovato blasfemo, avrebbe pregato il Signore perché lo facesse
anche quella volta.
Fu il suo ultimo pensiero.
Poi, il sonno e la stanchezza lo travolsero.
Lo svegliò un rumore. Qualcuno era entrato nella sua stanza. Di scatto,
balzò in piedi afferrando la spada che aveva lasciato accanto sé.
«Sono io! Sono io!» disse la voce familiare di Yortan.
Kane abbassò la guardia, passandosi una mano sul viso stanco. Fuori, il mondo
era ancora immerso nel cuore della notte, ma il villaggio era animato da un
movimento incessante.
«Cosa sta succedendo?» chiese a Yortan.
«Il dio bianco. Ha scelto la sua sposa, questa notte. È apparso alla capanna
delle donne, e ha fatto la sua scelta. Senza attendere la cerimonia. E ha
scelto Arima.»
«Come?»
«Hai sentito bene, Solomon Kane. Ha scelto colei che amo. Colei che ho giurato
di difendere e proteggere fino alla morte. È giunta l’ora di onorare il tuo
giuramento, uomo bianco. La tua spada dovrà essere al mio fianco, poiché noi
daremo l’assalto alla dimora del dio bianco!»
«Non c’è bisogno che tu mi ricordi il mio giuramento, Yortan. Dammi solo il
tempo di raccogliere le mie cose e partiremo. E che il Signore illumini i
nostri passi.»
Uscito dalla capanna, si rese conto che l’intero villaggio era in fermento.
Le altre ragazze erano tornate dall’esilio sacro e raccontavano terrorizzate
quello che era successo. Con le lacrime agli occhi, parlavano del terribile
frastuono che si era prodotto quando il dio bianco era apparso, facendo
scomparire il tetto. Aveva gli occhi di fuoco, dicevano, e la sua voce era
forte e rabbiosa come un ruggito. Non capivano quello che diceva, non ne erano
in grado, ma erano certe che fosse adirato. Loro erano rimaste paralizzate, le
più giovani erano scoppiate a piangere, mentre il dio illuminava la notte con
il suo intollerabile splendore. Poi tutto era successo in fretta, troppo in
fretta perché loro potessero raccontarlo in modo comprensibile. L’unica cosa
certa era che un attimo prima Arima c’era e che quello dopo non c’era più, con
loro. Sparita assieme al dio bianco.
Yortan cercava di spingere via Kane, di partire il più in fretta possibile, ma
l’inglese era attorniato da uomini e donne che, concitati, gli chiedevano conto
del comportamento del dio bianco. Perché non aveva atteso il momento della
cerimonia? Perché sembrava adirato? Perché la sua scelta era stata effettuata
in quel modo?
Kane non sapeva cosa dire, si sentiva tirare da ogni parte, i volti, alla luce
delle fiaccole, erano minacciosi e oscuri. Per un attimo, fu sul punto di sguainare
la spada. Poi fu la voce di Boso a catalizzare l’attenzione di tutti.
Il sacerdote era apparso sulla soglia della sua capanna, con addosso tutti i
paramenti sacri. Parlava con le braccia al cielo, imponente e ieratico.
«Il dio bianco è infuriato con noi,» disse «per colpa dell’impostore che è
giunto tra noi. E ha scelto Arima non per farne una sposa, ma per portarla con
sé nel suo inferno, per punirla del suo sacrilegio!»
Tra la folla si levò un mormorio stupito. Tutti si allontanarono da Solomon Kane.
Solo Yortan restò al suo fianco, con le mani strette attorno alla lancia. Boso
sorrise, sentendo di tenere in pugno i propri fedeli e andò avanti.
«Quando infatti egli giunse dal fiume, infranse il rito del bagno purificatore
delle promesse spose. E fu Arima a insistere con le sue compagne perché
interrompessero il loro rituale per prendersi cura di lui, sperando così di
vincere il favore del dio bianco di cui credevano egli fosse un inviato.
Addirittura, ella mi venne incontro lungo il sentiero, come i miei novizi
possono testimoniare. E osò rivolgermi la parola! Per questo, per queste sue
orribili azioni sacrileghe, ella è stata punita. Ma la colpa, è facile da
capire, non è sua. Arima è stata solo una vittima della menzogna di questo
impostore che ora sta in mezzo a voi, che voi avete riverito e curato. Il dio
bianco ci ha dato un segno, punendo Arima. Tocca a noi ora punire il falso dio,
se non vogliamo che l’ira del dio bianco cada su di noi! Avanti! Uccidetelo!
Uccidetelo!»
Ci fu un momento, di stasi quasi irreale. Il silenzio cadde sul villaggio,
lasciando Solomon Kane e Yortan al centro del vuoto che si era creato attorno a
loro. Nessuno osava avvicinarsi. Nessuno osava alzare la sua mano contro l’uomo
che aveva ucciso due grandi lucertole nella foresta, pochi giorni prima.
«Avanti, figlio mio! Fa’ ciò che è giusto per tutti noi. Uccidi l’impostore!»
urlò Ognilim’Ba, quasi all’improvviso.
Yortan si staccò da Solomon Kane, allora. Fece pochi passi, fissando l’inglese
negli occhi, la mano sempre stretta sull’arma. Kane trattenne il fiato. Il viso
del ragazzo era una maschera immobile di ebano, nella quale brillavano come
pietre dure gli occhi. Poi, accadde tutto in un lampo. I muscoli del corpo di
Yortan guizzarono, la lancia si staccò dalla sua mano con un sibilo di morte.
Un istante dopo, Boso lottava invano per togliersi dalla gola il giavellotto
che lo aveva colpito. Il suo sangue usciva dalla ferita a fiotti, denso.
«Il dio bianco è l’unico impostore!» urlò Yortan, così forte che la sua voce
trasfigurò in un ruggito selvaggio.
Il caos esplose nel villaggio, tra l’orrore e la sorpresa per la morte del
sacerdote e la blasfemia del ragazzo. Uomini e donne presero a correre da una
parte all’altra, urlando e piangendo. Qualcuno cercò di aiutare Boso, ormai
colto dagli ultimi spasmi dell’agonia.
Ma nessuno osò avvicinarsi a Kane e Yortan.
«Partiamo ora, in fretta,» sussurrò l’inglese al guerriero. «Prima che si
rendano conto davvero di che cosa hai fatto»
Yortan annuì, raccolse una lancia che stava appoggiata a una capanna e poi
corse via con Solomon Kane. Lasciandosi alle spalle tutto quanto.
Nessuno dei due si voltò mai, durante il cammino verso la dimora del dio
bianco. Ignorarono il sonno, la stanchezza, la paura, l’incertezza.
Entrambi avevano una sola cosa che occupava la loro mente: salvare Arima. Kane
non poteva dimenticare il coraggio, la decisione e la gentilezza della giovane
donna alla quale doveva la vita. E non poteva tollerare l’esistenza di qualcosa
che si faceva passare per una creatura divina, sottomettendo altri esseri umani
attraverso la menzogna. Di qualsiasi cosa si fosse trattato, lo avrebbe
distrutto. O sarebbe morto nel tentativo.
Avanzarono nella giungla fino all’alba. Fino a che non giunsero davanti a un
oggetto incomprensibile. Era come se un enorme pezzo di acciaio fosse stato
colpito da milioni e milioni di fulmini, esposto alle intemperie per l’intera
eternità e gettato in mezzo al sentiero. Qualcosa nelle sue fattezze rivelava
un’origine umana, ma nel complesso appariva come un monolite alieno, contorto,
dagli spigoli taglienti e le geometrie impossibili. Un pezzo d’acciaio forgiato
dal diavolo in persona nel ventre stesso dell’Inferno.
«Che cosa è questo?» chiese Kane a Yortan, stringendo più forte il feticcio
ju-ju.
«La pietra bianca. Oltre questo punto, il territorio è tabù. Oltre questo
punto, il potere del dio bianco è assoluto».
Kane portò in avanti il suo piede destro, calpestando un’immaginaria linea. Una
linea che Yortan forse poteva vedere.
«C’è un solo Dio, Yortan. E lui cammina al nostro fianco. Presto anche il tuo
dio bianco lo scoprirà. Andiamo!»
Yortan socchiuse gli occhi e seguì Kane, oltre la pietra bianca. Oltre le sue
paure. Oltre la sua gente.
Dentro. Erano andati dentro. Qualsiasi cosa ci fosse stata alle sue spalle
prima, non esisteva più. Non poteva più esistere.
Il sentiero saliva lungo il fianco di una collina pietrosa. Lo percorsero
quasi correndo, nel silenzio più assoluto. Gli unici rumori erano quelli
prodotti dai loro piedi.
Poi un altro suono divenne più forte: un singhiozzo. Una voce femminile
singhiozzava ritmicamente. Si fermarono. Tesero le orecchie, come predatori in
caccia.
Fu Yortan il primo a individuare la fonte del suono: una caverna alla loro
sinistra, pochi metri più in alto della strada. Non disse nulla. Solo, indicò a
Kane con la punta della lancia l’apertura nella roccia. Kane rispose con un
cenno del capo.
Non fu difficile raggiungere la grotta, per i due uomini. All’imboccatura, la
voce si era fatta più distinta: Arima.
Prima che Kane potesse fermarlo, Yortan si gettò all’interno, di corsa. Urlò il
nome della ragazza.
Kane rimpianse l’aver perduto così le possibilità di agire di sorpresa. Sguainò
la spada e si lanciò, lama nella destra e bastone magico nella sinistra,
dentro.
Trovò quasi subito Arima. Era gettata a terra in un angolo di una grande sala
naturale. Non aveva ferite. Non visibili, almeno. Singhiozzava tra le braccia
di Yortan. Tutt’attorno, biancheggiavano le ossa. Ossa umane. Le precedenti
spose del dio bianco. «Lui... lui...» ripeteva incessantemente Arima tra le
lacrime «sta male, ha paura... sta morendo! Il dio bianco sta morendo!».
La voce di Solomon Kane tagliò l’aria come una lama di ghiaccio, gelida e
affilata. Una domanda, una sola parola:
«Dove?»
Arima guardò l’inglese con gli occhi rossi e gonfi di lacrime. Poi tese un
braccio, indicando uno dei cunicoli che si dipartivano da quella sala. «L-là»
balbettò. Yortan fece per sussurrarle qualcosa, allentò la pressione del suo
abbraccio, ma Kane lo fermò.
«Resta con lei, Yortan. Lei adesso ha bisogno di te. Io no. Resta con lei.»
«Kane, io...»
«Tu devi stare qua con Arima. Questo è il tuo posto, adesso.»
Il giovane guerriero cercò di protestare ancora, ma prima che potesse farlo i
suoi occhi incontrarono quelli supplicanti di Arima. «La porto fuori di qui»
disse a Kane. «Tu fa quel che devi fare, uomo bianco. Uccidi il dio bianco
anche per me!»
Kane annuì con aria solenne, mentre Yortan prendeva delicatamente in braccio
Arima.
Poi girò le spalle ai due giovani. Li lasciò al loro amore e si diresse verso
il dio bianco.
Il cunicolo scendeva nel ventre della terra.
Si era aspettato di dovere accendere una torcia, ma non ce n’era bisogno. Dal
fondo emanava una luce bianca e fredda. Una luce innaturale, forte abbastanza
per vedere senza bisogno del fuoco.
Il feticcio ju-ju prese a vibrare, come attraversato da una forza misteriosa.
Fu come se nella mano sinistra di Kane camminassero milioni di formiche
microscopiche. Milioni di formiche impazzite.
Scese ancora. A ogni passo, faceva caldo, sempre più caldo. Come se stesse
scendendo verso il fondo dell’Inferno. Pensò alla scultura aliena che aveva
visto sul sentiero.
Poi, il cunicolo finì, sfociando in un’altra sala sotterranea, più piccola
della precedente.
Kane vide la sorgente della luce innaturale che aveva guidato i suoi passi.
Era un corpo, un corpo umano rannicchiato in un angolo, di spalle. Da lì,
emanava quel bagliore argentato. Il corpo stesso aveva quel colore, distribuito
uniformemente, come se fosse stato immerso in un bagno di argento fuso. Ma
quello non era un corpo, non era una pelle. Era un abito, si rese conto Kane.
Un abito bizzarro che aderiva a tutto il corpo, come un guanto alla mano. Solo
la testa ne era libera, come mostravano i capelli, color dell’argento
anch’essi.
«Sei tu colui che si fa chiamare il dio bianco?» domandò in inglese il puritano
facendo rimbombare la voce contro le volte di pietra della grotta.
La figura ebbe un tremito. Si voltò verso la voce di scatto, come se avere
sentito quella lingua lo avesse sorpreso.
Ma a essere sorpreso di ciò che vide fu Solomon Kane.
Il dio bianco era un ragazzino. Un ragazzino bianco. Il suo volto non
dimostrava più di sedici anni. Ed era il volto di un ragazzino impaurito.
Per un istante, Kane sentì la pietà che premeva ai bordi del suo odio. Poi gli
tornarono alla mente le immagini della distesa di ossa delle sue precedenti
spose. La pietà venne rigettata in un angolo.
«Puoi capirmi, vero? Sei tu il dio bianco?» ripeté alzando la voce.
Il dio-ragazzo annuì. Nei suoi occhi si poteva leggere il terrore. Aveva visto
le armi dell’uomo che era entrato nella grotta. La sua spada, ma non solo. Il
bastone, quel bastone con la testa felina che teneva in mano, gli procurava
dolore. La sua sola presenza gli causava dolore. Dolore e debolezza. Da qualche
giorno, sentiva il suo potere che si affievoliva. In quel momento aveva capito
la causa: quel bastone interferiva con il suo potere. Con quello che era il suo
dono e la sua dannazione.
Da quanto tempo viveva in quello stato? La cosa che un tempo era stata Simon
Perec non lo ricordava più. Ricordava il fulmine che colpiva la cronocapsula,
lo smarrimento, il dolore. E poi, il Potere. Assoluto, totale. Ma un potere che
aveva in sé una maledizione, che lo legava a quei luoghi. Milioni di anni in
solitudine, fino alla comparsa degli esseri umani. Aveva chiuso la valle. Se
lui non poteva uscire di lì, nessun altro lo avrebbe fatto. Loro avevano deciso
che lui era un dio. Lui si era comportato come tale. E aveva preso le loro
donne. Una ogni dodici mesi. Il suo Potere le consumava, le distruggeva. Il suo
Potere non poteva ridare la vita. Poteva solo toglierla. Un Potere sterile. Il
Potere di un dio vendicativo.
Ma ora, il suo Potere stava svanendo. Lo sentiva scorrere via minuto dopo
minuto. Forse gli era stato fatale lo sfoggio rabbioso che ne aveva fatto per
portare via la donna dalla capanna sacra. O forse era solo una questione di
tempo. Ma ormai non c’era più nulla da fare. Lui e il Potere erano una cosa
sola. Senza il Potere, lui sarebbe scomparso. Svanito nel nulla.
In quel momento, però, lui era ancora vivo e senza più nemmeno un briciolo di
Potere. Nemmeno un briciolo che potesse usare.
Per questo, Simon Perec tornò a essere quello che era un istante prima che il
fulmine colpisse la cronocapsula: un ragazzino spaventato.
Lacrime scesero dagli occhi del dio bianco.
La sua voce si incrinò: «Aiutami... io non voglio morire!»
Il volto di Solomon Kane restò impassibile come quello di una maschera, mentre
avanzava verso di lui puntandogli contro il bastone ju-ju: «Nemmeno tutte
quelle donne lo avrebbero voluto. Ma tu le hai uccise. E non è stato l’unico
dei peccati che hai commesso. Per questo è giusto che tu ora muoia. Non so chi
tu sia veramente, non so perché tu possegga i poteri che ho visto in azione, ma
so che meriti di morire. Non c’è nulla che io possa fare per te. Solo Dio
potrebbe avere perdono di te. Solo lui potrebbe salvare la tua anima, se ancora
esiste da qualche parte in fondo alla cloaca nella quale la hai gettata».
Un lampo di consapevolezza attraversò gli occhi del dio bianco, oltre la paura,
oltre il dolore, oltre la rabbia.
Kane alzò il braccio sinistro. Il feticcio ju-ju sembrava agitarsi come un
serpente nella sua mano.
Il dio bianco congiunse le mani. «Padre nostro...» gli uscì dalle labbra in un
soffio.
Ma era troppo tardi. Il bastone calò su di lui alla conclusione di una
traiettoria discendente.
Non ci fu contatto.
La verga magica attraversò l’aria.
Il dio bianco era scomparso nel nulla.
Calò il buio.
FINE
Note
Secondo alcuni, il modo migliore di scrivere una storia è quello di
prendere elementi da altre storie e mescolarli gli uni con gli altri. Un metodo
divertente, a ben vedere. Ho voluto provare pure io e questo è il risultato.
L’idea era quella di gettare Solomon Kane in un grande luogo comune della
narrativa avventurosa: la “valle perduta” in cui sono sopravvissuti i
dinosauri. Poi, per mescolare ancora un po’ di più le carte mi è sembrato cosa
buona e giusta gettarci dentro un tocco di fantascienza dozzinale e una
spruzzata di King Kong (sostituendo l’antiestetica scimmia con una specie di
Silver Surfer in piena tempesta ormonale da 150 milioni di anni). E per finire,
che cosa dire dell’altro abusato stereotipo dello straniero bianco scambiato
per un dio (io lo ricordo in un romanzo di Tarzan per certo, ma in fin dei
conti è quello che fa Zagor da una vita)? Come guarnizione, giusto perché un
po’ abbiamo studiato, ho clonato qualcosina dall’incontro tra Ulisse e
Nausicaa. Se mi trovano morto con una cetra piantata in gola, sapete il perché.
Dimenticavo: il finale è “tronco” per scelta. Cosa accadrà a Kane uscito
dalla valle? Chi sono gli uomini che cercano qualcosa per conto di lord
Arlington (se il nome non vi dice nulla, date un’occhiata allo speciale
natalizio del 2005!)? E soprattutto... COSA cercano?
Domande a cui cercherò di dare una risposta prima della prossima
glaciazione!